Aggiornato il giorno 11 Maggio 2020
Marco Vallarino, uno dei nostri autori di avventure più prolifici, firma di giochi entrati nella storia italiana del genere, come Enigma, dopo l’uscita del suo ultimo lavoro, Luci della finanza, è tornato con questo articolo sulla vecchia dicotomia: text adventure o narrativa interattiva (interactive fiction)?
Nel dibattito (annosissimo) si ha la tendenza a giudicare la narrativa interattiva più profonda e più prestigiosa rispetto alle text adventure. Questo perché le text adventure sono – semplificando – “cacce al tesoro” che puntano sugli enigmi o – in passato – alla “caccia alla parola”. La narrativa interattiva, invece, lascia – o sembra lasciare – in secondo piano gli enigmi – a beneficio della storia.
Ci ho riflettuto molto, negli anni ho anche cambiato più volte opinione, e alla fine credo di poter dire che questa differenza non esiste. Semplicemente, ci sono avventure belle e avventure brutte.
In Zork, la leggendaria Zork, il protagonista è un blank hero, un pupazzo senza background e senza emozioni, eppure Zork è un capolavoro perché ha enigmi sensazionali, un mondo ampio e strutturato, un’atmosfera di tensione che traspare in ogni parola. Alla fine, è anche una grande storia.
L’autore di avventure, anche di una text adventure, anche di una caccia al tesoro, ha il dovere di emozionare o di stupire: con un colpo di scena (vedi il favoloso Make it good di Jon Ingold), con un enigma strabiliante (vedi la meravigliosa “T-removing machine” di Leather Goddesses of Phobos). Alla fine, chi finisce l’avventura non deve esultare solo perché ha vinto, ma anche perché forse l’avventura gli ha lasciato qualcosa.
In fondo, l’autore di avventure non sta programmando Space Invaders.
E intendiamoci subito su che cosa significa storia. Storia non significa necessariamente trama. Storia significa anche buoni personaggi, approfonditi, dialoghi non prevedibili, descrizioni di stanze mai viste, enigmi al passo con i tempi.
E’ vero quello che dice Marco: “Ognuno di noi, se ha una buona storia in mente, può scriverla così com’è, senza doverci per forza aggiungere elementi ludici o interattivi per tentare di trasformarla in quello che non è: un videogioco”.
E’ vero, non deve per forza aggiungerci elementi ludici. Ma è anche vero che se ha una buona storia e riesce ad aggiungerci buoni elementi ludici finisce per creare una buona avventura.
Prendete il vostro romanzo preferito. Pensate a come sarebbe se fosse un’avventura ben fatta: vi piacerebbe o no?
Oppure provate Make it good di Jon Ingold: ha più elementi ludici di tante text adventure, ma ha anche una storia degna di un grande romanziere.
In tutto questo, c’è un aspetto fondamentale: è una questione di strumento. Lo strumento-avventura. Uno strumento che offre possibilità non realizzabili nei libri: l’interazione, le cut-scenes cinematografiche, i colori, il privilegio di esaminare un personaggio, per conoscerlo meglio, e ignorarne un altro che magari ci sta antipatico, mentre in un libro siamo costretti a conoscerli tutti e due.
Se abbiamo un strumento così potente è un peccato non sfruttarlo al massimo e utilizzarlo solo per le sequenze “prendi chiave”/”apri porta” o “dai soldi”/”ricevi cammello”. E’ uno strumento che va oltre il gioco in sé e per sé. E’ uno strumento formidabile per uno scrittore che ha la fortuna di poterlo usare (e quanti grandi scrittori potrebbero imparare Inform? pochi, ve lo dico io): gli permette di presentare le sue storie e di dare emozioni in un modo diverso, unico.
Per questo, non condivido la distinzione di Marco tra lettore e giocatore. Chi si mette davanti a una avventura, infatti, è semplicemente tutte e due le cose: un’entita unica, un lettore-giocatore. Certo, se è pigro vorrà un gioco veloce e facile, ma se anche il più pigro lo nutri con emozioni, personaggi un po’ più profondi, enigmi diversi dal solito, vedrai che quel pigrone alla fine ti ringrazierà.
Oltre tutto, nel tempo c’è stata una evoluzione. Siamo passati dai giochi di Scott Adams, cacce al tesoro basic, ad avventure come Photopia, storia struggente, che usa lo strumento in modo innovativo per l’epoca ma pecca per mancanza di enigmi, fino alle perfette vie di mezzo come Anchorhead.
L’autore di avventure ha il dovere di esplorare questo strumento, di cercare nuove strade, come fa ogni giorno Emily Short.
In conclusione, anche una text adventure, una caccia al tesoro, può essere una grande avventura. Del resto, tutte le text adventure che si rispettino hanno almeno un elemento straordinario: un personaggio, un enigma, una situazione.
Prendete la leggendaria Avventura nel castello di Colombini. Ricordate anche solo la prima scena? Stupefacente, originalissima per l’epoca, non sfigurerebbe in una ottima sceneggiatura. E ricordate il tono, la scrittura scanzonata, la rottura della quarta parete, gli enigmi fuori dagli schemi?
Ebbene, quel capolavoro era una caccia al tesoro. Scritta trentotto anni fa.