Per chi conosce la Melbourne House è un nome familiare: Veronika Megler, coautrice di The Hobbit e prima dipendente della software house australiana. Se Philip Mitchell è un fantasma, riservato, fors'anche scontroso, lei è un'anima allegra: gentile, disponibile, con un sacco di cose interessanti da dire. Soprattutto sugli Npc, dilemma degli autori d'avventure di sempre. Sì perché Veronika e il resto della squadra Melbourne hanno tentato, con più determinazione della Infocom in certi casi, di creare personaggi intelligenti e, soprattutto, indipendenti. Vediamo come e con quali difficoltà.
Cominciamo con un classico: presentazione.
Ho 41 anni, lavoro alla Ibm come Consulting Architect, negli Stati Uniti. Ho lavorato alla Ibm Australia per dieci anni dopo aver lasciato la Melbourne House. Mi occupavo di mainframes, performance tuning, systems management e IT management consulting. Poi ho lasciato, ho viaggiato e mi sono trasferita negli Stati Uniti, una decina d’anni fa. Sono stata consulente di altre aziende per cinque anni prima di tornare alla Ibm Global Services e diventare IT architect. Oggi mi occupo di wireless. Mi piace molto perché ho a che fare con strategie e architetture d’alto livello e, al momento, anche con la realizzazione dei prodotti.
Come hai scoperto le avventure? E come sei arrivata alla Melbourne House? Ci racconti la storia?
Io, Philip, Ray e Kerryn studiavamo computer science e matematica all’università di Melbourne e avevamo lavorato assieme in molti progetti. Ho risposto a un annuncio all’università: cercavano programmatori di giochi, era un lavoro part-time. Alfred Milgrom, proprietario della Melbourne House, mi assunse e divenni il primo dipendente della software house. Fui io a portare Philip, che divenne il secondo dipendente. Il sogno di Alfred era creare un’interfaccia per ottenere un linguaggio naturale e, per riuscirci, assunse Stuart, un esperto in quel campo.
L’indicazione che ci diede Alfred era: “Scrivete il miglior gioco d’avventura di sempre”. E così io e Philip realizzammo The Hobbit. Più in là arrivarono Ray e Kerryn: si occuparono dei giochi in Basic e dei libri.
Dopo la laurea, io, Ray e Kerryn lasciammo la Melbourne House. Io e Ray andammo a lavorare per la Ibm Australia, Kerry fu assunto da un'industria mineraria. Philip continuò invece a lavorare lì, poi arrivò altra gente per lavorare ai giochi futuri.
Che tipo era Philip Mitchell? C’è un aneddoto divertente accaduto durante il lavoro alla Melbourne House?
Philip era un uomo tranquillo, molto gentile e molto paziente. Sì, anche piuttosto riservato. Abbiamo lavorato molto bene assieme, ci completavamo.
Ricordo una storia divertente successa all’università, non alla Melbourne House. Io, Philip, Kerryn e Ray stavamo lavorando a un grande progetto di gruppo. Verso la fine del lavoro, Ray provò a cancellare tutti i file con almeno uno spazio prima del nome (un bug del nostro progetto) e scrisse: "rm *". Per errore, cancellò tutti i file! Non avevamo niente su carta perché c’era un limite ai file che potevamo stampare. E allora intervenne Philip. Si accertò di quello che era successo e, con estrema calma, iniziò a riprogrammare tutte le sezione che aveva appena scritto. Quando io e Kerryn riuscimmo a tranquillizzarci, facemmo lo stesso (io fui l’ultima a tranquillizzarmi). Riscrivemmo centinaia di righe di linguaggio C dalla memoria e quando lo compilammo e lo provammo funzionò al primo colpo – cosa che non succedeva prima che Ray cancellasse i file! Riuscimmo a consegnare il lavoro in tempo. Non lo dimenticherà mai!
Cos’hai messo di tuo in The Hobbit?
Ho pensato e programmato le locazioni, i personaggi e le loro caratteristiche. Ho usato il libro come guida per la storia, cercando di non discostarmi troppo dall’intreccio, ma dovevo fare i conti con i limiti dei computer di allora. Philip ideò e scrisse l’intero language-engine, il sistema dei messaggi e l’interfaccia per la grafica. Stuart lavorò alla semantica.
Quante lavoravate al giorno?
Beh, era un lavoro part-time, dipendeva da quante lezioni avevamo al giorno e in che giorno. Spesso lavoravamo di sera, dopo le lezioni. Durante le vacanze, in media otto-dieci ore al giorno.
Molti momenti duri?
Per quanto mi riguarda, sono andata abbastanza spedita. Una volta applicati i concetti del database era piuttosto facile raggiungere l’obiettivo. Mi sarebbe piaciuto, però, poter lavorare con uno dei linguaggi object-oriented di oggi: le cose sarebbero andate davvero bene.
Philip, invece, ebbe molte sfide da affrontare con il language-engine, sviluppare quel tipo di algoritmi metteva alla prova il suo talento. Quando finì di programmare i comandi e me li fece vedere, si presentavano come un set di comandi separati, specifici. Così la frase “take the hammer and hit Gandalf with it" diventava “pick up the hammer”, seguita da “hit Gandalf with hammer”.
Si parla sempre dell’atmosfera hawaiiana negli uffici Infocom. Com’era alla Melbourne House?
L’atmosfera era buona, perché venivamo dalla stessa università e stavamo bene assieme. Lavoravamo in una grande stanza con molti accessori e ognuno aveva la sua bella scrivania.
Quanto hai lavorato lì?
Un anno.
Grazie al film (ai film) la storia del Signore degli anelli ha coinvolto molte nuove persone. Le avventure, però, rimangono giochi di nicchia. Sarà sempre così?
Oh, oggi gli appassionati di avventure preferiscono i giochi “divini” – è successo a tanti miei amici. E alcuni di questi giochi “divini” sono davvero potenti, basta pensare a The Sims! E poi c’è stata la crescita dei libri di fantasy science fiction. Sì, credo che le avventure rimarranno giochi per un pubblico di nicchia.
Che mi dici di Sherlock? E’ vero che c’era un premio per la prima persona che lo avesse risolto per prima? Era un viaggio a Londra?
Ai tempi di Sherlock avevo perso i contatti con la Melbourne House. Mi spiace, non saprei dire.
The Hobbit e gli altri giochi della Melbourne House sono pietre miliari del genere, ma sono anche famosi per i bug. Non erano testati abbastanza?
The Hobbit era difficile da testare. A differenza degli altri giochi del tempo, è scritto in Assembler, non in Basic: dovevamo, quindi, cercare i bug nell’Assembler e in tutti i programmi di supporto. Inoltre, non è lineare: cambia a seconda della partita grazie al lavoro di Philip, che tentò di sviluppare una perfetta routine basata sul Caso.
Mentre il giocatore fa una mossa c’è un personaggio che ne fa un’altra, e i personaggi agiscono indipendentemente secondo le loro caratteristiche: inoltre, interagiscono a prescindere dalla presenza del giocatore. Ci sono cose che possono succedere con il giocatore in tutt’altra locazione. Insomma, avevamo a che fare con un modo di gestire i personaggi mai programmato o sperimentato prima.
Il programma va in crash perché, ad esempio, c’è qualcosa che succede in un posto lontano dalla locazione del giocatore (o del betatester), mentre il gioco mostra solo ciò che succede nella locazione visitata. Per un certo periodo, abbiamo avuto grossi problemi con i personaggi: a volte si uccidevano l’uno con l’altro prima che il giocatore li incontrasse: c’era ancora molto lavoro da fare per migliorare i loro profili, le loro caratteristiche…
All’epoca era un lavoro rivoluzionario. Il nostro punto di partenza fu Unix Adventure in cui ogni personaggio era legato a una locazione, faceva una sola cosa e si comportava sempre allo stesso modo. Anche negli arcade era così: gli oggetti con cui si poteva interagire reagivano sempre allo stesso modo e non interagivano mai tra loro.
Con il language-engine, inoltre, si poteva creare un'interazione tra i personaggi in modi che non avremmo mai creduto possibili. La gente ci scriveva di frequente per dirci che aveva fatto cose alle quali non avevamo pensato, cose che non credevamo potessero essere supportate dal gioco. Avevamo, ad esempio, realizzato il sistema di “salvataggio” soltanto come aiuto per il debug.
Ci puoi dire di più sugli aspetto tecnici di The Hobbit?
L’abbiamo scritto usando tutte le ultime tecniche imparate all’università. I messaggi, ad esempio, fanno parte di un database che contiene la struttura del comando. Quando il giocatore immette un comando, il message-engine mette in ordine, in base alla situazione, soggetto, complemento oggetto, aggettivo e verbo. Poi lavora su generi e numeri: singolare, plurale, femminile, maschile. Le singole parole sono da un’altra parte e vengono richiamate quando serve. Così, a differenza di altri giochi del tempo, è impossibile sbirciare il database dei messaggi per scoprire indizi.
Ogni oggetto ha una serie di caratteristiche e le azioni su quest’oggetto dipendono, appunto, dalle sue caratteristiche. Ad esempio, può essere vivo o morto. Ha un determinato peso: se è leggero, può dunque essere preso e usato come arma anche se non è un’arma di per sé. Se è un personaggio “morto” non è diverso da un altro oggetto “pesante”. Se è vivo, però, può combattere, reagire, sempre in base alle sue caratteristiche.
Il carattere di ogni personaggio è composto da una serie di azioni, c'è solo da scegliere. A volte le azioni si susseguono nell’ordine, altre volte cambiano in base a quello che è successo prima – come lo gnomo socievole, che può diventare violento se attaccato (o preso). Un’azione richiama una routine generale. Ad esempio, sceglie una direzione verso la quale far andare il personaggio (e la routine, in questo caso, è la stessa per tutti i personaggi). Poi ci sono le azioni specifiche, legate a singoli personaggi: ad esempio “Uccidi ogni essere vivente”.
The Hobbit è stato scritto per diventare un game-engine. Le locazioni, i personaggi, il language-engine e il message-engine sono stati realizzati con le tecniche dei database per essere cambiati e, eventualmente, dar vita a un altro gioco, a un gioco diverso. S’era anche parlato di realizzare un game-editor per permettere alla gente di creare giochi a casa, usando un’interfaccia. Ma l’idea non ha avuto seguito, o almeno non l’ha avuto come volevamo noi. Quando abbiamo iniziato a parlare di Sherlock, ci siamo resi conto che un adventure-engine non ci avrebbe aiutati: per creare quel tipo di enigmi, avevamo bisogno di altri modelli.
Sei un’appassionata di avventure? Qual è l’ultima che hai provato?
Quando arrivai alla Melbourne House, avevo giocato solo a Unix Adventure, a Space Invaders e ai grandi arcade dell’epoca. Ci piaceva andare in sala giochi, provare tutti i nuovi usciti e ammirare le tecniche con cui erano stati realizzati. All’epoca gli arcade erano un’industria a sé con tecniche del tutto diverse. Quando poi ho lasciato la Melbourne, ho abbandonato i videogame per oltre 15 anni. Adesso gioco a Tetris (più o meno cinque volte l’anno) e, anni fa, ho provato The Sims. No, non sono una grande videogiocatrice.
Cosa fai nel tempo libero? Sei sposata? Dove vivi?
Sono sposata e vivo a Portland, Oregon, con mio marito, il mio gatto e il suo cane. Nel tempo libero, leggo, faccio giardinaggio, cucino, sto con gli amici, vado a teatro, alle mostre, ai concerti, viaggio e scio. Davvero una bella vita!
E’ vero che parli l'italiano?
Mio padre ha studiato in Italia, all’università di Padova, mentre mia madre ha lavorato in Italia. Si sono conosciuti e sposati in Italia, ma non sono italiani. Quand’ero bambina, parlavano continuamente dell’Italia e, spesso, lo facevano in italiano.
Aprile 2002