ORGC 2008

Con piacere, leggo in giro che già qualcuno invoca la One Room Game Competition 2008 e allora confermo che, anche quest'anno, la gara per avventure testuali ambientate in una sola stanza, ci sarà: il termine ultimo per iscrivere i propri giochi sara' intorno a meta' novembre, come al solito. Presto su questi lidi pubblichero' date ufficiali e bando ufficiale.

In bocca al lupo, avventurieri!

L’affondo di Sokal

Solo ora, a distanza di qualche mese da quando l'ho conclusa, ho preparato la recensione di una avventura che parte da ottime premesse, ma delude, nonostante porti la firma prestigiosa di Benoit Sokal: Sinking Island.

Il Risveglio

In questa domenica di luglio, ho finito dopo un mesetto di gioco sporadico un gioco notevole: Sherlock Holmes-The Awakened. Lo consiglio a tutti gli avventurieri. Perché? Leggete qui

Punti di vista

Forse e' un problema mio. Ma ultimamente, mi capita di trovare facili enigmi ritenuti molto difficili, e di trovare difficili enigmi ritenuti normali.

Per esempio: ho provato Culpa Innata, gioco osannato ma a mio avviso pretenzioso e stucchevole, e mi sono trovato di fronte a enigmi tutti dello stesso tipo: puzzle da assemblare, colori da sistemare, cubi di Rubik, schemi elettrici. Per me, roba inutile, fuori contesto e inutilmente difficile (si va per tentativi, annoiandosi a morte), tanto che enigmi del genere invitano ad abbandonare il gioco. Eppure, a leggere le recensioni gli enigmi di Culpa Innata sono ritenuti "corretti", "di discreta difficolta'" eccetera. Per me sono solo fumosi rompicapo che non danno alcuna soddisfazione e convincono a consultare una buona soluzione gia' scritta.

Tutt'altro è successo con gli enigmi di Undercover: Operation Wintersun, onesto gioco con spy-story. Si tratta di enigmi strutturati sulla combinazione di oggetti e sul classico "usa oggetto con". Non ci sono puzzle, sequenze da centrare, cubi di rubik, giochi del 15.

Ebbene, diverse recensioni giudicano "difficili" gli enigmi di questo, chi addirittura "difficilissimi". Per me, invece, sono rompicapo sì, ma intelligenti. E soprattutto danno soddisfazione.

Possibile che un "gioco del 15" o un enigma tipo "Simon" (il gioco della sequenza dei colori da ripetere) siano considerati piu' semplici, e addirittura appassionanti, di enigmi basati sugli oggetti? Mah.

Dammi una trama stupida, grazie!

“La tua trama, per essere seguita dalla gente, deve essere dannatamente stupida”. Con questo motto Ken Levine, cofondatore di 2kBoston, sviluppatore del gioco Bioshock, ha cominciato il suo discorso alla Game Developer Conference che si è tenuta a marzo a San Francisco.
Il suo, come riporta un bel resoconto su tomsgames.com (che ho rintracciato via Emily Short), è un provocatorio discorso sul tema narrativa e videogames, che parte da questo assunto: “Narratori, a nessun giocatore di videogame interessano le vostre stupide storie”.

Su questo sito si è più volte discusso del rapporto tra storie ed enigmi. Ora le parole di Levine, che scrive giochi per mestiere, offrono nuovi spunti. Al di là di molti discorsi teorici, infatti, è sempre bene ascoltare chi adatta il suo modo di lavorare alle esigenze del pubblico, rispondendo a logiche commerciali prima che artistiche (è il denaro, bellezza).

Dunque, Levine, esagerando un po’ e lasciandosi andare al paradosso (vizietto e trucchetto di tutti i conferenzieri), demolisce il valore narrativo nei videogame. Levine spiega che, nel corso della realizzazione di Bioshock, ha rinunciato senza pensarci due volte a dodici personaggi, a gran parte del plot e ha ridotto l’arco narrativo da diverse decadi a… un giorno. Per compensare queste mancanze, ha invece voluto ampliare la “scenografia”.

«Più roba c’è, più si confonde il giocatore», dice Levine «Il nostro obiettivo era semplificare, semplificare, semplificare».

Insomma: per lui, una storia troppo profonda allontana, se non spaventa, il giocatore. E poiché l’obiettivo, che risponde ovviamente a logiche commerciali, è attrarre le masse, se la sensazione è di “pesantezza”, meglio prendere un’accetta e tagliare pagine e pagine di copione in nome dell’audience. Con un escamotage, presente in Bioshock: la possibilità di approfondire certi aspetti della storia del tutto facoltativa e ininfluente ai fini della partita.

Levine fa un esempio molto azzeccato: «Se fermate Indiana Jones in qualunque momento de I predatori dell’Arca Perduta e gli chiedete: “Che cosa stai facendo?”, lui risponderà sempre: “Cerco l’Arca Perduta!”». Semplicità, dunque. Con qualche trucchetto, rubato agli sceneggiatori delle serie TV americane, per dare una “profondità” che magari non c’è. Levine fa l’esempio del serial Lost in cui puntata dopo puntata nascono nuove domande sui misteri dell’isola che, per la maggior parte, rimangono senza risposta. «E’ più divertente ed efficace offrire domande ai giocatori piuttosto che obbligarli a cercare le risposte!». Un concetto di una, scusate, paraculaggine geniale. In effetti, in Lost le domande danno atmosfera… più delle risposte!

A seguire, il passaggio chiave. Per Levine, in sostanza, la storia va adattata alla giocabilità. Ed è proprio su questo punto che Emily Short, nota autrice di narrativa interattiva, è saltata dalla sedia e, in un commento al pezzo di tomsgames.com, ha protestato: eh no, mio caro, narrativa e gioco devono procedere di pari passo. Giusto, Emily. Ma è anche vero che, fatte le dovute differenze tra un videogame d’azione come Bioshock e un’avventura testuale, c’è chi potrebbe dire che in un videogame (pure in una avventura testuale) si può prediligere il gioco in sé e per sé alla storia. L’autore italiano Marco Vallarino, ad esempio, credo sia su questa linea di pensiero: più tesori da scoprire, più enigmi, meno narrativa, grazie.

E’ un punto di vista.

Per chiudere, le tre regole del game designer (no storyteller…) di Levine:
1) Rispetta il pubblico. Non obbligare il pubblico a seguire la tua storia, ma rendila solo “digeribile” a tutti.
2) Il mistero è tuo amico. Fai affidamento sulle domande senza risposta.
3) Aiuta il giocatore. Dagli la possibilità di godersi il gioco o la storia nel modo che più gli aggrada.

Parafrasando Levine, la conclusione brutale potrebbe essere : se tu, game designer, farai bene il tuo lavoro, il giocatore potrà anche sciropparsi la tua storia all’interno del gioco (a patto che non sia troppo lunga e complicata, eh).

Zork nel cyberspazio

Spulciando l’archivio del quotidiano la Repubblica, è saltato fuori un articolo di Furio Colombo del novembre 1995 intitolato “Ho trovato Dante nel Cyberspazio”, in cui si parla di… Zork.
Ecco il passo per noi interessante:

“Il poeta americano Robert Pinsky (celebre traduttore dell' Inferno dantesco) ritiene che "velocità e memoria creino una inestricabile affinità fra poesia e computer". L' intuizione di Pinsky serve per accostarci alla domanda: qual è il "genio" ovvero il senso specifico di questo mezzo espressivo – il computer – rispetto ad altre forme di rappresentazione della realtà (cinema) di comunicazione (televisione) di espressione diretta e personale (scrittura)? Scrive Pinsky: "Io qui mi riferisco alla natura della macchina, al suo essenziale piacere di gioco con le parole, alla nozione di passaggio segreto.

Non tanto tempo fa fra i primi frequentatori del computer, anonimi autori avevano cominciato a programmare storie. Si trattava di brevi tratti narrativi in cui ciascun autore seguiva l' altro nel completare la incompletabile composizione. La struttura era quella del racconto gotico, con enigmi, draghi, spade, torce, trabocchetti. Usando un certo codice sulla tastiera, giocatori lontani tra loro e l' uno all' altro sconosciuti potevano entrare nella narrazione". Questo gioco ha preceduto e preparato il più spettacolare successo di uso delle parole come divertimento nel computer, il famoso Zork.

Al principio di Zork il giocatore si trova in una piccola casa vuota. Può uscire soltanto usando la sua tastiera. Ma ecco la sorpresa. Dopo molti tentativi, il giocatore abile trova la chiave per discendere in un tunnel. Quel tunnel lo conduce nell' immensa rete del mondo di Zork: stanze concentriche, reticolati di sottopassaggi, terrazze e corridoi. E' la mappa di un "interno gigantesco. In questo senso", scrive Pinsky "il computer odora di anima umana. E' un passaggio segreto da qualcosa a qualcosa". Racconta che quando gli è stato commissionato un testo-avventura per computer, la prima cosa che i programmatori gli hanno insegnato è il rapporto fra scene (che si svolgono nel tempo) e stanze (che si situano nello spazio).

In un programma del cyberspazio una scena si trasforma fatalmente in una stanza. "Quando mi sono accinto al mio lavoro mi sono accorto dell' influenza che aveva su di me la parola ' circuito' . La mia struttura narrativa, una volta entrata nel computer, è diventata una serie di passaggi circolari organizzati in forma labirintica".

The Witcher: un’illuminazione

Lo so, non è una avventura grafica né tantomeno una avventura testuale. Ma The Witcher è uno dei migliori giochi che abbia mai giocato e la cosa ha stupito me stesso per primo: infatti, da una vita gioco solo avventure, raramente salto il fosso. Stavolta l'ho fatto e non me ne sono pentito. Ho giocato The Witcher con l'occhio dell'avventuriero "testuale": leggi la recensione

Nuove, vecchie frontiere

Nella bella intervista di torredifuoco a Enrico Colombini, pubblicata sull’interessante “speciale” di SPAG dedicato alle avventure italiane, c’è una frase che mi ha particolarmente colpito.

Quando Enrico, parlando dei moderni sistemi o linguaggi per la realizzazione di avventure, dice che molto spesso «non c’è alcuna relazione fra la complessità del world-model e il divertimento del giocatore. Per esempio, se puoi guardare sotto un oggetto e dietro un oggetto, allora devi guardare sotto tutti gli oggetti e dietro tutti gli oggetti del gioco, il che è estremamente noioso».

Nelle avventure grafiche, invece, le cose stanno diversamente: si possono manipolare soltanto pochissimi oggetti in ogni stanza, scelti dagli autori. E nessuno grida allo scandalo, come accade invece quando, nelle testuali, l’autore dimentica di rendere esaminabile quel “granello di polvere” che compare nella descrizione della stanza. Nelle grafiche ci sono stanze e stanze bellissime a vedersi, piene di oggetti, ma prive di hotspot.

E non è vero che nelle testuali è realmente necessario descrivere tutto perché non c’è grafica: se scrivo letto potrebbe anche bastare. Che cosa mi aggiunge, dopo un “>ESAMINA LETTO”, una descrizione tipo: “E’ un normalissimo letto”? Nulla. Meglio allora sarebbe non inserirla proprio quella descrizione.

Ma non si può. Perché, ormai, nell’immaginario collettivo, un’avventura testuale che non consideri manipolabili oggetti della descrizione, e ogni minimo granello di polvere, dà inevitabilmente un senso di sciatteria.

Enrico Colombini ha sempre predicato la “bellezza della semplicità”. In effetti, è più semplice, più divertente, più immediato il “metodo” avventura grafica: esamino e manipolo solo quello che mi serve, più o meno.

Un approccio del genere dà velocità, azione.

Del resto, siamo pur sempre alle prese con un gioco e se l’interazione è più “spedita” non può che essere un bene. Certo, questo potrebbe rendere più semplici gli enigmi perché si capisce subito quali sono gli oggetti “utili”, ma non è detto: un enigma davvero buono non necessita di simili escamotage.

Detto ciò, mi chiedo se davvero la nuova frontiera possa quella dell’avventura con molti oggetti visibili e pochi esaminabili: risulterebbe bizzarro, no?

Di certo, però, giochi così renderebbero più facile la vita agli autori, che spendono più tempo a controllare le azioni “dovute” che a concentrarsi sulla trama. Infatti, come lasciava intendere Enrico a SPAG, spesso il world model è troppo inutilmente ampio e prevede troppe azioni che finiscono solo per allungare la brodaglia: “guarda sotto”, “guarda dietro”, “cerca”…

In conclusione, mi chiedo: ma che cosa accadrebbe se qualcuno, oggi, programmasse un gioco con bellissime descrizioni, bellissima trama, fantastici enigmi, ma solo con oggetti visibili, hotspot come nelle avventure grafiche (e come nelle testuali antiche, stile Scott Adams)?

Se quello che conta è la trama, che farsene di tanti oggetti inutili? La trama, infatti, per me è tutto, insieme alla buona scrittura, in una avventura testuale. E quando Roberto Grassi si stupisce, sempre su SPAG, che Beyond non abbia avuto il successo che merita, viene da chiedersi se non sia tutta colpa della trama poco originale, dei personaggi stereotipati e, soprattutto, di una scrittura di livello medio/basso (come ho già scritto nella mia recensione) che non rende onore a certi altri pregi del gioco, non a caso sul podio della IF Comp.

Ricordo, ad esempio, i giochi di Bonaventura. pochi oggetti esaminabili, ma fascino ovunque. E un gioco così costruito di certo risulta anche più digeribile, meno prolisso, finanche più divertente e aperto a un pubblico decisamente più vasto, pure occasionale.

E’ questa vecchia strada la nuova frontiera della narrativa interattiva?

E’ solo un’illusione?

Oggi ho ricevuto questa interessante mail da un promettente adventure designer. Poiche' e' sempre piu' rara la discussione sul game design delle avventure, la propongo sperando che si apra un dibattito. 

Ciao,

leggevo su avventuretestuali.com la posta interattiva (del 2003) riguardo le trame di AT e, anche se a quasi 5 anni di distanza, vorrei esprimere la mia opinione in merito.

(L'unico recapito che sono stato in grado di trovare è questo, spero di non prendere un granchio abissale.)

Capisco l'esigenza di sentirsi parte della storia ma penso che riuscire in qualche modo a dare la senzazione al giocatore/lettore di scriverla con le sue azioni (senza ricadere nella soluzione dei bivi) sia estremamente arduo e laborioso, nonchè lungo ed impegnativo.

Sarebbe però possibile, magari preparandosi su carta un world-model e una quantità molto ampia di eventi.

Più precisamente: creiamo uno spazio molto ampio (50 stanze?), cogitiamo un filo narrativo estremamente flessibile, un incipit generico. Poi, rispetto alle fantomatiche azioni del giocatore, si 'sbloccano' stanze e png, argomenti, trame diverse e quant'altro. (es. più storie in una)

Sotto, sotto, però, converrete con me, rimane una struttura a bivi, che magari non si presentano in forma esplicita, ma rimangono comunque tali.

Penso che sia una questione di sensazione, cioè, mi sento davvero protagonista della fiction che sto giocando o mi sento su un treno che mi conduce di fronte a porte chiuse, codici da decifrare e domande da porre?

Premetto che sono un Hard-videoplayer, gioco quasi tutto quel che esce da 25 anni a questa parte, ma vedo che la senzazione di scrivere veramente il destino del mio alter-ego, o la storia che vive, non la trasmettono nemmeno i giochi di ultima generazione, con 300 persone che ci lavorano 18 ore al giorno per 5 anni…

E' per questo motivo che vorrei sottolineare la sensazione che si ha giocando, perchè, seppur con molti sforzi, possiamo soltanto dare l'illusione che il giocatore 'scriva' una storia che noi (autori) abbiamo comunque già pensato e previsto…

Tanto più ampio sarà il numero di variabili, tanto maggiore sarà la sensazione di 'libertà'.

Nella IF che sto ultimando (che è anche la mia prima) ho optato per una scelta di questo tipo; la storia è una, ha un inizio ed una fine ben precise, è scandita da un ritmo e da una progressione lineare di eventi.

Però ho cercato di premiare i giocatori che tentano di 'uscire dagli schemi', se compiono certe azioni (non inerenti la trama principale) si verificano eventi secondari in grado di cambiare l'atteggiamento di un png nei confronti del player, attivano una piccola sottotrama, forniscono maggiori approfondimenti sulla trama principale, aprono una parentesi (forse) divertente, cambiano il modo che il player ha di vedere le cose.

Ho cercato, piuttosto che fornire una trama diversa, di far reagire il mondo al modo di comportarsi del giocatore, ed è questo che personalmente intendo con 'scrivere la storia', può sembrare facile, ma non lo è affatto.

Per provarci ho avuto ed ho bisogno di molti playtesters, che guardo giocare.

Posso tentare di prevedere cosa farà un giocatore (da buon ex dungeon master) ma di fatto vederne alcuni giocare è molto meglio.

Sono d'accordo sul fatto della non rigiocabilità di un'AT, in linea di massima almeno, anche a me non piacciono molto i bivi e non ho mai apprezzato più di tanto i libro-game, una IF va molto oltre e lo deve fare; non ci devono essere troppi passaggi narrativi lunghi, tipo 'pagina, invio, pagina, invio, pagina, prompt dei comandi…(magari uno o due, per cose importanti) secondo me il ricavare la storia dal contesto, cercare anche le informazioni (e non solo gli oggetti) contribuisce a renderci protagonisti, se abbiamo qualcuno che ce la racconta deve esserci un motivo nella storia, altrimenti scivoliamo verso un libro sul monitor…

Concludo abbastanza duramente ma, secondo me, riuscire a fare scrivere veramente la storia al nostro protagonista (il giocatore x) non è seriamente possibile, possiamo soltanto dargliene l'illusione.

Visto il lavoro che questo comporta (e stiamo parlando di un hobby!) e che ci sarà sempre quel giocatore che fa qualcosa che tu non avevi previsto, vale veramente la pena di ampliare così tanto le opportunità che una specifica AT offre?

Brami Gabriele a.k.a. Miglioshin